Filed under: Paper Cameras, Stenoscopia - Pinhole Photography | Tag: cardboard camera, cardboard cameras, cardboard DSLR, cardboard movie camera, cardboard SLR, cardboard sx-70, cardboard TLR, Kiel Johnson, paper camera, paper cameras
L’artista Kiel Johnson, nativo del Missouri ma residente a Los Angeles, è un mago del cartone, in grado di riprodurre qualunque oggetto. Strumenti musicali, audiocassette, torchi per la stampa, foto e videocamere, nelle sue mani si trasformano in divertenti sculture di cartone, dettagliate, giganti o a grandezza naturale. Incredibili le sue macchine fotografiche, che riproducono modelli realmente esistenti, dalle TLR alle Polaroid. Molte rispettano la scala originale, e sembra che siano dotate di foro stenopeico. Altre sono sculture esagerate, non progettate per scattare fotografie. Tutte, comunque, sono pensate per stimolare i sensi dello spettatore, che “può interagire con esse nello stesso modo in cui farebbe con una vera macchina”. La sua opera rende omaggio alla straordinaria varietà di forme, e alla personalità, di questi oggetti tecnologici:
Il suo sito personale: http://www.hyperbolestudios.com/kieljohnson.com/HOME.html
Tutte le immagini © 2010 Kiel Johnson
Filed under: Frankenphotographers, Panoramic Photography, Scannercamera, Stenoscopia - Pinhole Photography, Tilt/Shift Photography | Tag: 360 panoramic camera, A3 Scan Camera, copier camera, copy camera, david smeulders, diy panoramic camera, fotografia tilt shift, frankenfotografia, frankenphotographer, frankenphotography, kopieer cam, nederlands fotomuseum, oscar smeulders, Panoramic Photography, pinhole slit camera, pnhole Zenit, RGB Scan Camera, RGB Scannercamera, robotized panoramic head, rotterdam museum night, ScanCam, Scannercamera, scannerfotografia, scannerphotography, slit camera, Superzoom Pinhole Camera, tilt shift photography, tilt shift scannercamera, tilt/shift, vj klebowax, Zenit stenopeica
Il designer David Smeulders (http://www.davidsmeulders.com/), negli ultimi anni, ha esteso il proprio campo di ricerca al di là della grafica e del vjing (Vj Klebowax, insieme al fratello Oscar), esplorando territori frankenfotografici. Le sue Scannercamera hanno conquistato un posto d’onore non solo nel suo percorso di sperimentazione, ma anche tra le attività delle lungimiranti istituzioni olandesi: al 6 Marzo di quest’anno risale la sua ultima “scan-photo-installation”, durante la Rotterdam Museum Night, e le sue creature sono state esposte l’anno scorso al Nederlands Fotomuseum (http://www.nederlandsfotomuseum.nl/).
Al Fotomuseum David ha presentato una versione deluxe della sua Copy Camera (commissionata per l’occasione!), costruita con una stampante multifunzione. Con questa macchina ha realizzato un’installazione interattiva: premendo un pulsante il pubblico ha potuto auto-ritrarsi, ottenendo un’immagine in formato A4 in meno di un minuto “come con le vecchie Polaroid”. A differenza di queste, però, si aveva un minuto a disposizione per muoversi davanti alla macchina, inscenare una piccola performance, e avere una Scan-photo.
Nel 2007 David ha costruito un primo modello di Scannercamera, usando uno scanner piano, un obiettivo per macchine di grande formato, e un originale sistema di scorrimento che permette di muovere l’obiettivo. Con questa macchina si ottengono scan-photo di oltre 500 Mb.
Con il nuovo modello A3 Scan Camera è possibile sfruttare tutti i movimenti dell’obiettivo: “let’s tilt/shift/swing again!”
Con la RGB Scan Camera David ha fatto un ulteriore passo avanti nella ricerca espressiva scannerfotografica: questa macchina è in grado di acquisire immagini a colori attraverso 3 obiettivi, che registrano separatamente i tre canali RGB che compongono l’immagine (un canale per lente, ma l’acquisizione è simultanea). Nella piattaforma è inserito un laptop che controlla l’acquisizione e alimenta lo scanner.
Queste mostruose creature digitali sono solo le ultime realizzazioni di David. La sua ricerca frankenfotografica è iniziata con esperimenti analogici, nell’ambito della fotografia stenopeica e di quella panoramica. Ha realizzato due macchine panoramiche rotanti a 360°, motorizzate. La prima ruota ogni 4 secondi, registra immagini di piccole dimensioni (2.4 mm), e le “incolla” insieme una all’altra durante l’avanzamento. Per fare un giro completo impiega 16 step.
Il secondo modello presenta alcune modifiche: le immagini vengono scattate in 32 step, e l’otturatore si chiude durante la rotazione della macchina.
Un altro esperimento interessante è la Superzoom Pinhole Camera, una fotocamera stenopeica che monta un grandangolo davanti al foro. La lente è una di quelle che si usano per gli spioncini delle porte (160° Door Viewer). Una solida prolunga a soffietto targata CCCP (!) trasforma l’ottica grandangolare in uno zoom estremo, quasi un 500 mm.
Per chiudere questa breve rassegna dei lavori di David facciamo un passo indietro. Il suo primo esperimento con il foro stenopeico, dopo alcune macchine modificate, consiste in una Zenit stenopeica particolare. David ha costruito un accessorio per registrare le immagini in frammenti, montandolo davanti al foro stenopeico. In questo marchingegno sono inserite della barre, orizzontali o verticali. Durante la ripresa fotografica si elimina una barra per volta, in sequenza, registrando l’immagine pezzo per pezzo, consentendo di inferire la direzione del movimento del soggetto a partire dalla fotografia. Potremmo considerare questa macchina una sorta di slit-camera stenopeica. Essa dimostra che la ricerca di David Smeulders, fin dal principio, è stata incentrata sul concetto del “tempo” in fotografia. David definisce questa Zenit “la prima macchina per catturare il tempo”. Come le slit-cameras, infatti, registra il movimento dei soggetti in modo particolare. Probabilmente è partendo da qui che il designer è giunto a utilizzare la scannerfotografia, che prevede un tempo fotografico (espresso dal movimento nello spazio “pro-filmico”) del tutto diverso dalle normali fotocamere.
Qui trovate informazioni su tutti i modelli autocostruiti da David Smeulders: http://koudzweet.nl/
Qui i video delle sue fotocamere: http://vimeo.com/user2785187
Qui il suo blog: http://blog.davidsmeulders.com/
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Luce, soltanto luce che trasforma il mondo in un giocattolo.
Intervista a Francesco Capponi
Partiamo dall’inizio: nelle tue galleries troviamo sculture e fotografie di ogni genere. Mi racconti brevemente il tuo percorso, dalla scultura alla fotografia, dalla fotografia alla Lomografia, dalla Lomografia all’autocostruzione e alle sculture di ispirazione fotografica?
Non saprei tracciare un percorso lineare. Ho studiato scultura all’accademia e negli ultimi anni avevo cominciato ad inserire lenti, camere oscure o proiettori nelle mie opere. Nel frattempo mi piaceva passare parte del mio tempo nel laboratorio di fotografia.
La fotografia di per sé mi affascinava e mi annoiava al tempo stesso. Mi divertiva soprattutto fare esperimenti in camera oscura, provare le solarizazzioni, sovrapporre negativi e cose del genere. Ho cominciato a giocare con le Polaroid e a maltrattarle, accartocciandole, aprendole e lavandole. Adoravo l’indeterminazione estetica che le immagini ottenute mi regalavano.
Chiesi la tesi sulle Polaroid ma mi fu detto che la fotografia non aveva attinenza con la scultura. Quasi per sfida cominciai a costruirmi oggetti stenopeici che diventavano, insieme alle foto, parte dell’opera. Installazioni tra scultura e fotografia. Alla fine mi laureai con una tesi sulla fotografia stenopeica e continuo ancora oggi a portarne i segni addosso e a costruirmi macchine fotografiche. Quando sono tornato alla scultura, poi, l’esperienza fotografica mi era rimasta talmente attaccata addosso da influenzare fortemente i miei lavori.
Come ti sei avvicinato alla Lomografia? Vedo che hai provato tutte le possibilità espressive che offre, usando la Holga, la Horizon panoramica, la Lomo LC-A, le Polaroid maltrattate. È stato un passaggio importante per arrivare successivamente a sperimentare l’autocostruzione, o i due interessi sono nati contemporaneamente?
In realtà la Lomografia è venuta solo dopo. Già mi costruivo macchine fotografiche, mi piacevano le immagini che potevo ottenere con le pinhole e la libertà creativa che mi davano, e il tutto ad un basso costo. Quando ho visto le prime Lomo, plasticose ed economiche, dotate di strani congegni ludici e imperfette nel risultato, me ne sono subito innamorato, ci ho ritrovato parte del fascino che mi davano le mie macchine. Holga e LC-A hanno quelle imperfezioni che adoro e danno sentimento all’immagine, la vecchia Horizon la considero un capolavoro meccanico con il suo obbiettivo rotante. Alle Polaroid sto ritornando ora dopo anni, sono curioso di provare le pellicole dell’“Impossible Project” che sembrano aprire innumerevoli possibilità di elaborazioni.
Possiamo considerare la fotografia, soprattutto a livello popolare, come un medium trasparente, cioè come una tecnologia che si nasconde all’utente: si schiaccia un pulsante, si porta la pellicola al laboratorio e si ritira la foto finita; in digitale si scatta e si può stampare la foto inserendo direttamente la memoria in una stampante. Ha vinto insomma la filosofia della Kodak, che ha trasformato la tecnologia fotografica in una tecnologia – oggi diremmo – user friendly. Ciò ha contribuito a diffondere la fotografia oltre ogni aspettativa, eppure, oggi, dopo oltre un secolo di dominazione della tecnologia fotografica industriale, non possiamo non considerare il fatto che questa impostazione tralasci una serie infinita di possibilità espressive e creative. Io credo che la fotografia possa e debba recuperare la propria identità di medium opaco, attraverso il recupero delle conoscenze e delle esperienze necessarie, e questo è esattamente l’argomento del blog. Come consideri il mezzo fotografico e le sue potenzialità espressive?
“Voi schiacciate il bottone, noi facciamo tutto il resto” non mi appartiene come filosofia. Vorrei controllare il più possibile il processo perché penso che il percorso dia forza alla meta.
Ora la fotografia è completamente cambiata dai suoi esordi, è alla portata di tutti, questo ha aperto miriadi di possibilità nuove, ma allo stesso tempo ha fatto perdere a questo medium gran parte della sua potenza magica. Fare una foto è un atto quotidiano e ripetuto, e come tale rischia di diventare banale. Oggi la maggior parte delle foto sono scattate con un telefono. Se l’atto che crea non ha emozione, questa non la ritroveremo nemmeno nell’immagine creata.
Guardate le foto sui documenti per esempio. La tecnologia ha fatto passi enormi ma il ritratto che deve rappresentare la nostra identità è sempre più scadente. Mio nonno si fece ritrarre da un fotografo, con una grossa macchina fotografica, le luci giuste, il vestito buono e pettinato per la festa. Sarà venuto apposta in città e probabilmente sarà stato emozionato nel farsi ritrarre, era una cosa rara. Col tempo si è passati alle cabine Fotomatic, prima con i loro bei quattro scatti in bianco e nero, poi “evolvendosi” fino al digitale, dove ti vedi proiettato su uno schermo, scegli tu lo scatto, puoi correggerlo o cancellarlo, senza più l’emozione di aspettare che le foto escano dalla buchetta e si asciughino per sapere come sei venuto.
Ora, per il rinnovo della mia carta d’identità elettronica, la foto me l’ha fatta alla sprovvista un’impiegata dell’anagrafe, in una stanza semibuia e con una webcam scadente. Risultato: mio nonno era bellissimo sul documento, io un mostro. Non riesco a considerare questo come progresso.
Sarò pure un nostalgico, ma da qualche parte qualcosa non mi torna.
Mi sembra che anche la tua ricerca stia seguendo la direzione del medium opaco, e vorrei che raccontassi qualcosa del tuo percorso. Come sei arrivato a riappropriarti della tecnologia fotografica? Che cosa ti ha spinto? Perché hai iniziato a smontare e costruire fotocamere?
Inizialmente per curiosità. Mi stupiva riuscire a catturare la luce e trasformarla in immagini.
Quando poi ho cominciato a far vedere i miei lavori la cosa che notavo e amavo di più è stato il ritrovare questo stupore e questa sorpresa negli occhi di chi li guardava. La gente era incredula sul fatto che si poteva fare una fotografia con una noce, e per comprenderlo si doveva sforzare a domandarsi com’era possibile. La risposta è spiazzante per la sua semplicità: la luce viaggia in linea retta, per due punti passa una sola retta, quindi le immagini possono essere trasportate.
E’ alla base anche della nostra vista, il senso che più di tutti ci lega a ciò che circonda.
La risposte spesso sono semplici, ma pochi si pongono le domande oppure tendono a complicarle.
Prendere i meccanismi che stanno alla base, privarli di tutte le sovrastrutture culturali e riscoprirne la semplicità intuitiva, nella sua banalità mi aiuta a capire ciò che appare complesso.
Probabilmente bisogna avere il coraggio di gettare via la macchina fotografica per acquisire la consapevolezza del mezzo. È per questo che ti definisci “fotografo senza macchina fotografica”? O ti riferisci alla sola fotografia stenopeica, che rappresenta il più semplice apparato di acquisizione? In proposito fai un’affermazione importante: “In un certo senso ho sempre cercato di distruggere la fotografia con l’unico risultato di essere considerato un fotografo…”
Quando l’ho scritto in parte ero proprio senza macchina fotografica! Nel senso che davvero mi consideravano tutti un fotografo e magari mi chiedevano addirittura di fargli le foto per il matrimonio, ma il mio equipaggiamento consisteva solo in varie stenopeiche, toy cameras e al massimo una vecchia reflex a pellicola. Poi, come noti anche tu, la frase poteva essere letta in più maniere appunto, dalla stenopeica in primo luogo, fino al fatto che vorrei “fotografare”, cioè scrivere con la luce, anche senza macchina, ma magari con camere oscure, specchi o lenti.
La fotografia in parte la odio e, come dicevo, spesso mi annoia, ce ne è troppa, quindi la maltratto, la distruggo, ne cerco le deformazioni e ne accentuo i difetti, la riporto alle origini ripartendo da lì. Questo processo però ha la funzione di rendermela interessante, di ricrearmela nuova e non banale, ridarle incanto e innamorarmene di nuovo. All’esterno vedono solo il prodotto finale di questo mio processo, la foto, e magari mi chiamano quando gli serve un fotografo, ma io non mi ci sento, almeno non nel senso che la maggior parte delle persone attribuisce alla parola.
La tua particolarità rispetto ad altri pinhole photographers mi sembra consistere nella costruzione delle fotocamere. Le tue infatti sono sempre costituite da oggetti di uso quotidiano convertiti in fotocamera, piuttosto che fotocamere costruite da zero. Questo ha un sapore molto surrealista e dadaista, le tue fotocamere sono un po’ degli objets trouvés, dei ready-made. Già la fotografia incorpora questo meccanismo nella sua capacità di “ritagliare” il reale decontestualizzandolo. Tu rinforzi questa capacità incorporandone il principio nella fotocamera stessa, reificandolo in qualche modo. Mi riferisco ad esempio al Pinholo (bel gioco di parole! Anche questo è indice di una vena surrealista). E poi la noce, il cappello a cilindro, il pianoforte. Come sei arrivato a fare questa scelta, “giocando più sul mezzo che sull’immagine”?
La mia tesi di laurea si intitolava appunto “Il mezzo come fine”, un po’ come quando si dice che non è importante la meta ma il viaggio. I miei oggetti sono scelti, o mi scelgono, a seconda di dove vogliono arrivare. Provo a ridargli nuova vita e cerco di farli parlare, di farmi mostrare il loro punto di vista.
Il Dada forse è il movimento dove più mi sarei ritrovato, se non fossi nato con cento anni di ritardo.
Per questo gli ho dedicato un’opera: “Ritratto ideale di Duchamp e Man Ray” fatto con la pedina stenopeica. Il mio lavoro senza di loro non sarebbe esistito. L’uso del ready made inventato da Duchamp e le contaminazioni e sperimentazioni sul processo fotografico di Man Ray, sono alla base di quello che faccio. Li ho “ritratti” attraverso il gioco che li accomunava, gli scacchi, un gioco divertente, simbolico, semplice e infinitamente complicato allo stesso tempo. Cerco di mettere vari livelli di lettura nei lavori: uno istintivo, divertente, uno propriamente estetico e uno più profondo, concettuale, come credo di aver appreso dalla loro lezione.
Se nel Pinholo o nella noce vedo un adattamento fotografico dell’objet-trouvé, in altre fotocamere il gioco di rimandi indubbiamente si complica. Mi piace molto l’idea del cappello a cilindro stenopeico, non solo per la bellezza dell’oggetto, indubbiamente surreale e istrionico, ma anche per il tipo di dispositivo fotografico capace di inscenare: la magia del coniglio che appare dentro il cilindro, come nei migliori giochi di prestigio. È evidente, in questo modo, che il fotografo-prestigiatore può inserire nell’atto fotografico una qualità magica oltre che giocosa. Un po’ come ai primordi della fotografia, quando la percezione della nuova tecnologia ne faceva un mirabolante spettacolo visuale. Cosa ne pensi? Sei un prestigiatore visuale? Ho l’impressione che tu, da bravo intrattenitore, cerchi di coinvolgere il pubblico nei meccanismi, nelle installazioni che crei: non vedo “opere” ma “operazioni”. Dico bene?
E’ sicuramente quello che vorrei trasmettere. Voglio affascinare divertire e incuriosire il pubblico. Il cappello a cilindro è uno dei lavori che preferisco proprio per questo. Come ti ho detto amo l’atto magico che sta alla base della fotografia e il rapporto cilindro-coniglio me lo sottolinea. Lo fa in maniera ironica e per questo penso più comunicativa.
Abracadabra e il coniglio appare nel cappello, impresso nella pellicola. Per me è magia.
Il cappello a cilindro è costruito forzandone l’aspetto scenografico, con chiavi e corde di metallo per azionarlo, solo per fare spettacolo. Prestigiatore visuale mi piace molto come definizione.
Anche il legame con il soggetto, in questo caso il coniglio, rafforza l’aspetto magico dell’operazione. Come motiveresti questa scelta? È solo un rimando culturale al più classico dei giochi di prestigio, o c’è di più? Te lo chiedo perché mi ha colpito molto il lavoro del fotografo Wayne Martin Belger, di cui ho scritto recentemente, che crea un legame sciamanico tra ogni fotocamera e il soggetto designato. Credi anche tu in una sorta di potere sciamanico o magico del dispositivo fotografico?
Le mie macchine di solito nascono per raccontare delle loro immagini specifiche. Con il cilindro fotografo conigli, con la pedina una partita di scacchi. Per me è come se i miei oggetti fotografici mi raccontassero le loro storie e per farlo usassero il loro particolare linguaggio. Una volta che quell’oggetto mi ha mostrato ciò che doveva e ha dimostrato di saperlo fare, solitamente finisce il suo percorso e non lo riuso più.
Se mi viene in mente che devo trasformare in fotocamera qualche cosa, non sono soddisfatto finché non ci riesco. Poi una volta che sono riuscito a farla funzionare per me perde ogni interesse.
Parto da intuizioni o a volte addirittura da sogni. Cerco un rapporto prodigioso, magico e onirico tra macchina e foto, ma non sciamanico. Forse mi prendo poco sul serio, per questo cerco di inserire spesso anche un lato ironico in quello che faccio. Preferisco affabulare, raccontare favole più che affermare verità. Non mi definirei mai uno sciamano, mi piace più come mi hai identificato prima, un illusionista o al massimo un saltimbanco.
Oltre al coniglio nel cilindro, vedo che hai fotografato origami con fotocamere-origami, la vita del bosco dall’interno di un ulivo, l’esecuzione musicale con una pianola stenopeica, e hai fatto migrare una casetta per gli uccelli stenopeica tra i tetti e la campagna… insomma, al di là del gioco, mi sembra evidente la tua volontà di creare una relazione tra la fotocamera e il soggetto, e poi con il pubblico. Come intendi questo tipo di relazione?
Una relazione, appunto. L’arte è una forma per comunicare. E’ il modo che mi viene più naturale per esprimermi. Nella comunicazione abbiamo tre elementi fondamentali: l’emittente, il ricevente e il codice. Sono tutti e tre ugualmente importanti. Le idee vogliono nascere e l’artista è solo un tramite. Inserendo la macchina nell’opera in un certo senso inserisco il mezzo creatore che mi rappresenta. Se questo fa entrare il pubblico in relazione con l’opera nella sua interezza, ciò significa che sono riuscito nel mio intento.
Le macchine fotografiche, specialmente quelle autocostruite, hanno un’anima, un carattere? Se l’hanno, come definiresti le tue varie fotocamere?
Penso di sì, in fondo quello che cerco è proprio il loro carattere. Non saprei come definirle. Mi viene da pensarle come piccole macchine per intrappolare idee, una sorta di catturasogni. Cerco di lasciare a loro gran parte del lavoro per scoprirlo solo alla fine.
Nei miei ultimi lavori, dove ho ricercato più l’immagine che il gioco mezzo-foto, questa sensazione è più evidente. Attraverso multiesposizioni stenopeiche sto mescolando le immagini senza sapere esattamente ciò che otterrò una volta sviluppato il rullino. Lascio al caso il comando, mi affido al destino. In qualche modo mi fido dell’anima delle mie macchine. Meno controllo il risultato più l’immagine mi appare forte. Proprio come nei sogni.
Un’altra fotocamera mi ha colpito tantissimo: la “pinhole pianola”. Anche qui sento un sapore tipico delle avanguardie storiche, quello dell’Arte Totale. In questo caso si tratta della comunione di musica e fotografia, o, per dirla con parole tue, di Fotofonia! Anche qui sei riuscito ad andare oltre ogni convenzione e struttura preconcetta, sei riuscito a fotografare la musica in maniera inedita. Io, almeno, non ho mai visto niente di simile. Scorgo in questa operazione almeno due meriti: il primo è che hai portato all’eccesso quello che è il carattere indicale della fotografia (semioticamente parlando), cioè l’essere indice del proprio referente, l’essere in rapporto genetico con esso. In questa operazione infatti il rapporto indicale si estende oltre l’immagine prodotta, quella del musicista che suona la pianola, e coinvolge l’esecuzione stessa in un processo nel quale la musica impressiona la pellicola. Ogni volta che si preme un tasto si apre un otturatore, e la musica si riversa sulla pellicola attraverso il corrispettivo foro stenopeico. Insomma, la tua è una ricerca espressiva, che sodomizza il dispositivo per costringerlo a rappresentare l’invisibile?
A volte forzo il dispositivo, altre volte lo creo appositamente, al fine di rappresentare un’idea. In questo caso un’idea invisibile come la musica. La “fotofonia” che ottengo esteticamente non ha importanza, ma è un’immagine che varia a seconda della musica suonata. Più viene suonata in intensità e frequenza la stessa nota più l’immagine relativa sarà chiara o multiesposta.
In un certo modo fotografa la musica!
Una melodia teoricamente è una cosa infotografabile, quindi, non accettando l’impossibile, ho sentito il bisogno di provare a farlo a mio modo, non ho potuto resistere.
Il secondo merito riguarda la concezione del tempo che la tua operazione presuppone. Il tempo fa da connettore tra la musica e la fotografia che ne risulta, e sappiamo quanto il tempo sia materia fotografica. Mi faccio una domanda, che giro anche a te: perché limitarsi a concepire il tempo fotografico come un istante congelato, quando è invece possibile estenderlo e fotografarlo nel suo svolgimento, creando anche una relazione tra il tempo dell’azione e il tempo della rappresentazione che va oltre la corrispondenza puntuale con l’immagine, come hai fatto tu con la tua pianola stenopeica? Cos’è il tempo per un “non-fotografo” come te?
Quando ci si confronta con la stenoscopia il tempo è un concetto che devi affrontare per forza.
Il concetto di “istantanea” viene in pratica cancellato in un solo colpo. Devi porti davanti al soggetto in tutt’altro modo, fermarti ad osservalo per tutto il tempo dell’esposizione, può essere considerato quasi un esercizio zen. Ti spinge a guardare e non semplicemente a vedere.
Approfondire questo poi porta a cercare di ritrarre un altro piano dell’invisibile: il tempo.
Ho provato a passeggiare per una via tenendo una camera di fronte a me, lasciando l’otturatore aperto per tutto il percorso. Ho ottenuto una silhouette mossa con delle strisce di luce dietro rappresentando concettualmente la via nel tempo impiegato per percorrerla. Cioè ho provato pretenziosamente a fotografare lo “spazio-tempo”. La stessa idea credo era già presente anni fa quando appoggiavo la stenopeica sul nastro del corrimano delle scalemobili inquadrando le persone ferme di fronte a me che si lasciavano trasportare.
Qualcosa di simile si sta realizzando con la scannercamera, che acquisisce l’immagine, il tempo, e lo spazio, in modo totalmente nuovo rispetto alle classiche macchine fotografiche. Hai mai fatto esperimenti con lo scanner? Cosa ne pensi?
Non ho ancora fatto esperimenti anche se la cosa mi incuriosisce, ma ancora la conosco poco. Probabilmente prima o poi sentirò quell’impulso a cui non so resistere e modificherò il mio scanner, ma per ora non ho affrontato la cosa personalmente.
Un articolo a parte meriterebbero i tuoi esperimenti con la stampante PoGo. Ormai ho capito come sei fatto: vuoi distruggere la Polaroid! Hanno creato una stampante portatile che voleva essere l’equivalente digitale del vecchio sistema Polaroid a sviluppo immediato, ed è proprio così che tu lo usi. Hai persino ricreato le celebri tecniche del trasferimento di immagine, con tutte le possibili violenze creative. Non so se questi esperimenti siano recenti, ma così mi pare, perciò attendo grandi novità. Intanto mi limito a constatare quanto sei andato avanti nel processo di decostruzione della tecnologia: hai sostituito le normali carte fotografiche Zink con la carta da scontrino, che utilizza lo stesso processo di impressione termica, e ci hai fatto dei bei ritratti. Che dire? Hai sempre più voglia di giocare col mezzo che con l’immagine. “Non sono un fotografo… almeno non mi sento un fotografo, ma una persona che ama giocare con la luce. In realtà nasco come ‘scultore’, e per scolpire la luce divento una specie di ‘ottico’”. Chiudi pure quest’intervista, ottico Dippold…
Quando ho acquistato la Reflex digitale mi sono ritrovato con uno strumento potente ma che mi appariva troppo freddo per farci arte, almeno per come la faccio io. La PoGo mi ha ridato il calore che mi dava la camera oscura o le vecchie Polaroid. Posso sporcarmi le dita, avere una fisicità con la foto. Appena ho sentito che usava una carta speciale, la Zink, che stampa senza inchiostro ma a calore, il piromane torturatore di Polaroid nascosto in me ha avuto un sussulto di gioia. Ho capito subito che sarebbe stato un media facilmente manipolabile. Ho trovato un grande alleato in Francesco Biccheri, amico e fotografo videomaker, che come me ama usare la fotografia, ma anche il video, in maniera inconsueta e divertita. Prima parallelamente poi insieme abbiamo cominciato a maltrattare le stampe della PoGo in ogni modo, reinventandoci tecniche di manipolazione, come il transfert, e provando a riportare in questo mezzo un po’ del fascino che avevano le Polaroid classiche. Il video che abbiamo girato per raccontare le nostre invenzioni ha avuto, grazie alla rete, un inaspettato successo. La soddisfazione di vedere gente che in varie parti del mondo ha iniziato a rifare le nostre manipolazioni non ha pari.
Per chiudere l’intervista posso solo usare le parole che Edgar Lee Masters fa dire al suo ottico Dippold, al quale ho rubato il nome dietro cui ogni tanto mi nascondo:
– E ora cosa vedi?
– Luce, soltanto luce che trasforma il mondo in un giocattolo.
– Benissimo, faremo gli occhiali così.
Un regalo di Francesco a tutti i Frankenfotografi: la Dippold Pinhole Camera, da scaricare e assemblare.
Potete scaricae il template originale in formato A4 da qui: http://farm3.static.flickr.com/2763/4449550485_7c572e76d7_o.jpg.
Per seguire il lavoro di Francesco Capponi: http://www.flickr.com/photos/dippold/ e http://www.francescocapponi.it/ (sito in costruzione).
Filed under: camera obscura, paleophotography, Stenoscopia - Pinhole Photography | Tag: Abelardo Morrell, big room camera obscura, brightbytes.com, camera obscura, Fontanellato, Ian Weir, Jack Beverly Wilgus, matt gatton, mo ti, paleo-camera, paleophotography, tasformare stanza in camera obscura, The Magic Mirror of Life
Immaginiamo un pugno di cavernicoli all’interno di una spelonca, protetti dalle fiere e dalle intemperie; delle pelli appese a mo’ di tenda all’imboccatura della caverna. Meglio ancora, proviamo a visualizzare una tenda primitiva costruita con legno e pellame. Immaginiamo poi che nelle pelli si sia formato qualche buco, casualmente. Cosa vedremmo se ci trovassimo anche noi all’interno di queste arcaiche abitazioni? Vedremmo immagini in movimento del mondo esterno, proiettate alla rovescia di fronte al foro. In altre parole, ci troveremmo dentro una Camera Obscura!
Anche se la prima descrizione del fenomeno risale al V sec. a.C. (ne parla il filosofo cinese Mo Ti, chiamandolo “la stanza del tesoro sotto chiave”), è plausibile che l’umanità lo abbia conosciuto in tempi ben più remoti. Da questa considerazione il ricercatore e artista Matt Gatton ha tratto una conclusione importante e inedita: sarebbe stato il fenomeno della Camera Obscura ad aver dato impulso alla nascita dell’Arte! Insieme a un gruppo di collaboratori Matt ha ricostruito l’esperienza proiettiva primitiva all’interno di quella che lui chiama “Paleo-Camera” (http://www.paleo-camera.com/). Osservando queste immagini viene subito da pensare alle pitture rupestri. Sarà una coincidenza? O davvero questo fenomeno ottico ha influenzato la nascita dell’Arte?
Se Matt Gatton avesse ragione, un lunghissimo filo conduttore legherebbe la nascita della Pittura, della Fotografia, del Cinema (e della teoria della conoscenza occidentale, se con una forzatura mettessimo in relazione le ombre della caverna di Platone con le immagini della “Paleo-Camera”).
Nel corso dei secoli sono state costruite Camerae Obscurae di ogni genere. Si sa che molti artisti usavano quelle portatili per dipingere. Ce ne sono anche tante, sparse per il mondo e tuttora visitabili, di dimensioni pantagrueliche: sono vere e proprie stanze, attrezzate per osservare l’esterno. In Italia, per esempio, si può visitare la Camera della Rocca Sanvitale di Fontanellato, nei dintorni di Parma, da cui, grazie a un sapiente gioco di lenti e specchi, è possibile osservare la piazza e le vie del borgo. Un sito interessante sull’argomento è quello di Jack e Beverly Wilgus, collezionisti innamorati del dispositivo ottico, intitolato “The Magic Mirror of Life”: http://brightbytes.com/cosite/cohome.html.
Terminato questo excursus, andiamo alla pratica frankenfotografica: la trasformazione della nostra camera da letto, o di qualunque altra stanza della casa, in Camera Obscura, e l’eventuale ripresa fotografica del fenomeno. È un’idea romantica e intrigante, semplicissima da realizzare. È necessario innanzitutto oscurare totalmente la stanza. Si possono usare i sacchi neri della monnezza per coprire la finestra. Al centro bisognerà praticare un foro circolare, attraverso cui passeranno i raggi luminosi. Questa è la soluzione più semplice e precaria. Poiché l’immagine così prodotta sarà poco luminosa, è consigliabile utilizzare una lente convergente da inserire nel foro. In questo modo si otterranno immagini luminose senza dover allargare il foro, operazione che ne diminuirebbe la definizione. È possibile acquistare una lente convergente da qualsiasi ottico. Prima però calcoliamo la giusta focale, all’incirca pari alla distanza tra la finestra e la parete opposta, su cui verranno proiettate le immagini. Presa questa misura bisogna trasformarla in diottrie, perché gli ottici misurano le lenti in termini di diottrie e non in focale. La formula che permette di eseguire questo calcolo è semplice: D = 1/F, dove D sono le diottrie ed F è la focale della lente espressa in metri. Se la focale della nostra stanza è di 4 metri, ad esempio, la lente corrispondente avrà una potenza di +0,25 diottrie (infatti D = ¼ = +0,25). Il segno + viene attribuito alle lenti convergenti, che sono quelle di cui abbiamo bisogno. Se l’ottico non dispone della lente esatta, può comunque procurarcene una che si avvicini alla potenza necessaria. In questo caso converrebbe utilizzare una lente dalla focale un po’ più corta di quella esatta (ovvero con la potenza maggiore, in termini di diottrie), in modo da mettere a fuoco gli oggetti più vicini. Si può inoltre chiedere all’ottico di tagliare la lente in modo da farla entrare esattamente in un astuccio. In questo tutorial si suggerisce di inserirla nel contenitore di un rullino vuoto. Dipende comunque dal modo in cui vogliamo installarla nella finestra. In base alle esigenze possiamo infatti montare la lente in modo temporaneo o permanente, su un’asse di legno da porre sotto la tapparella o nella tapparella stessa, oppure in una tendina nera da chiudere alla bisogna. Ognuno può scegliere la forma preferita, anche in base al tipo di finestra a disposizione. Nel tutorial vengono illustrati sapientemente i diversi sistemi. Se si vuole fare un tentativo basta usare un telo di plastica nero, come dicevo prima, con un foro al centro definito e senza pieghe (ma sarebbe meglio attaccarci comunque una lente). Basta questo, e una giornata luminosa, per avere “il cielo in una stanza” (e l’alba, se la finestra è rivolta a est).
Un ulteriore aspetto interessante della cosa è che possiamo scattare delle belle foto nella nostra Camera Obscura, proprio dall’interno del dispositivo ottico! Servono un treppiedi e una fotocamera luminosa, è vero, ma gli effetti sono molto interessanti. Sul solito Flickr c’è un gruppo dedicato a questa pratica: http://www.flickr.com/groups/bigroomcameraobscura/ .
Per invertire le immagini sono necessari degli specchi, un po’ come avviene nelle fotocamere reflex.
Un assaggio dal lavoro del fotografo Abelardo Morrell:
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Tempo fa abbiamo scritto della DIRKON, la celebre fotocamera stenopeica di carta pubblicata sul magazine ABC. Nel 2004, 25 anni dopo la pubblicazione della fotocamera ritagliabile, lo stesso ABC ha pubblicato un nuovo modello, la RUBIKON, progettato dal designer Jaroslav Juřica, pensato come una “reazione alla tecnologia digitale”. Come la DIRKON, anche la RUBIKON è distribuita gratuitamente in rete in formato PDF. Ne esistono due versioni, entrambe complete di istruzioni per il montaggio e persino di tavole per l’esposizione!
La RUBIKON2, progettata nel 2009, la trovate qui: http://huberokororo.com/files/Rubikon2_beta271209_CZ.pdf.
Qui trovate la RUBIKON1 del 2004, dotata di zoom 37-62!!! http://www.objetgraphik.com/IMG/pdf/objetgraphik_rubikon.pdf. Il link originale è http://huberokororo.com/files/rubikon_cameraobscuraEN.pdf, che però mi ha dato qualche problema.
Ecco come si presenta:
Un video che mostra la costruzione della RUBIKON1:
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Per calcolare l’esposizione con una macchina stenopeica bisogna conoscere alcune cose: la distanza focale, cioè la distanza tra il centro ottico dell’obiettivo e il piano pellicola, il diametro del foro, che in questo caso equivale al diaframma, il rapporto focale tra i due, espresso nella usuale misura f. La scuola migliore in questo campo è sicuramente la pratica, considerando l’infinità varietà delle pinhole cameras. Bisogna provare e riprovare, prendendo nota delle esperienze fatte e costruendo una tavola di esposizione, per ogni macchina, in grado di fare da guida durante la ripresa. Bisogna tener presente che, quando si espone la pellicola per tempi lunghi, il tempo deve essere aumentato calcolando il difetto di reciprocità.
In rete si trova un software gratuito in grado di calcolare tutto ciò. Funziona con Windows, e consiglio di utilizzarlo per fare pratica e per costruire la propria fotocamera stenopeica. Ecco il link dell’utilissimo Pinhole Designer 2.0.
Qualche immagine del software:
Breve aggiornamento: se usate il Mac potete scaricare il software PinholeCalc da questo link http://www.concepthouse.com/products/PinholeCalc/
Se non volete installare nulla sul computer sono disponibili parecchi calcolatori on-line. Il più completo mi sembra http://www.mrpinhole.com/calcpinh.php.
Altri link:
http://pinhole.stanford.edu/phcalc3.htm
http://www.photostuff.co.uk/pinholec.htm
http://www.zeroimage.com/tools/fstopcal4.php
Filed under: Frankenphotographers, Stenoscopia - Pinhole Photography | Tag: frankenphotographer, frankenphotography, pinhole, stenoscopia, Wayne Martin Belger
Ecco un vero Frankenphotographer: Wayne Martin Belger, classe 1964, ex cercatore di tesori, ex musicista, ex giocatore di hockey, ex manicure, ex ferrotranviere… si è dato alla fotografia sui generis. Anima e corpo, mi viene da dire. Le macchine stenopeiche che costruisce non sono soltanto splendidi oggetti d’artigianato, fatti di legni e metalli, ma hanno ciascuna una propria anima! Ne sono sicuro, non solo perché l’egregio Belger inserisce parti organiche in ogni macchina (!), ma soprattutto perché lo fa in base al soggetto che vuole fotografare. Mi viene in mente un aneddoto sul grande Mario Giacomelli, che durante un viaggio nell’Italia meridionale andava in cerca di una maga in grado di togliere il malocchio alla sua macchina fotografica, che aveva improvvisamente smesso di comportarsi come avrebbe dovuto (segnalo in proposito l’interessante libro della nipote di Giacomelli, Simona Guerra, La mia vita intera, Bruno Mondadori editore) . Ma le macchine fotografiche hanno un’anima? Io direi di sì, mi sembra evidente. Le foto che ho fatto con la mia Yashica FR quando ho iniziato a interessarmi alla fotografia non le ho più viste, quando l’FR è andata irrimediabilmente in panne. E ne ho tante altre…
Credo che l’industria abbia sottovalutato il potere spiritico dei suoi prodotti. Quando la fotografia era agli esordi, o non esisteva affatto, l’invettiva contro le immagini era parecchio popolare. Tralasciando le leggende sugli indiani americani che non volevano farsi “rubare l’anima” dalla macchina, di cui non ho alcuna prova, e le vicissitudini dei movimenti iconoclasti, mi viene comunque in mente il pastore Husneck, che (s)battezzò la nascita della dagherrotipia con un articolo sul Leipziger Stadtanzeiger che ne denunciava il carattere “demoniaco” – solamente Dio, a suo dire, poteva riprodurre l’effigie umana. Ricordo anche che quando Roger Bacon descrisse schematicamente il fenomeno della camera obscura, nel De Moltiplicatione Specium (1267), il tribunale ecclesiastico si mobilitò per condannare tale “atto di magia” e il suo autore.
Ma forse è meglio fare un passo indietro e tornare all’illuminato Frankenfotografo Wayne Martin Belger. Lascio ai lettori i commenti e mostro la sua opera, che come avrete capito va ben oltre il processo fotografico, coinvolgendo innanzitutto la realizzazione delle sue fotocamere. L’ultima volta che ne ho parlato con amici mi hanno dato del “pollo”, ritenendo inverosimli queste creazioni. Io però ci credo, e mi ha sempre solleticato quel realismo magico che passa dal Messico e mi sembra arrivare a coinvolgere artisti del calibro di Alejandro Jodorowsky e Joel-Peter Witkin. Ecco a voi le macchine e le fotografie di Wayne Martin Belger:
Cito dal sito di Wayne Martin Belger:
Born February 11 1964 in Pasadena California to two very understanding middle class Catholic parents, I remember the days when mass was done in Latin. Magic language, magic practices, and magic altars with their own ritualistic traditions are intriguing at 5 years old. Not knowing Latin, I relied more on visuals to receive the communication. The priest was using beautiful sacred tools and potions that were subject-created to bring me into communion with the subject. As the Priest has made his tools of gold and silver and Blood and Body to be in direct relationship with the subject Jesus, I create my tools of Aluminum and Titanium and Blood and Body to be in direct relationship with the subjects they are created for.
The tools I create and work with are pinhole cameras. With pinhole photography, the same air that touches my subject can pass through the pinhole and touch the photo emulsion on the film. There’s no barrier between the two. There are no lenses changing and manipulating light. There are no chips converting light to binary code. With pinhole what you get is an unmanipulated true representation of a segment of light and time, a pure reflection of what is at that moment. With some exposure times getting close to 2 hours, it’s an unsegmented movie from a movie camera with only one frame.
The creation of a camera comes from my desire to relate to a subject. When I choose a subject I spend time studying it. Then I start visualizing how I would like a photo of the subject to look. When that’s figured out, I start on the camera stage of the project by collecting parts, artifacts and relics that relate to the subject. When I’ve gathered enough parts and feel for the subject, I start the construction of the camera. I create the cameras from Aluminum, Titanium, Copper, Brass, Bronze, Steel, Silver, Gold, Wood, Acrylic, Glass, Horn, Ivory, Bone, Human Bone, Human Skulls, Human Organs, Formaldehyde, HIV+ Blood and relics all designed to be the sacred bridge of a communion offering between myself and the subject. All to witness and be a tool of the horrors of creation and the beauty of decay presented by the author light and time.